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Villaggio spegne ottanta candeline. Tra ricordi e malinconie

Gratta gratta, vuoi vedere che alla fine pure il laico Paolo Villaggio è un bel superstizioso? Sono anni, anzi decenni, che scherza sul tema della sua morte. E lo fa per esorcizzarla, quella Nera Signora che tutto falcia. Ottant’anni è un traguardo ragguardevole, un’età che si presta ai bilanci. Soprattutto quando -come nel caso del comico genovese- sei ancora nel pieno delle facoltà mentali. Con gli anni, ha scoperto il gusto della malinconia
crepuscolare. E così, lo si immagina in una stanza riparata della sua casa romana, intento a sfogliare l’album di una vita intensa.
Cosa è rimasto di quel giovanotto che, tra una zingarata e l’altra, respirava l’aria di una Genova di nuovo serena, dopo la paura della guerra? Probabilmente quel giovanotto ha perduto lo smalto di un tempo. Molti amici se ne sono andati, e il lutto è difficile da rielaborare, anche per chi come lui ha sempre fatto professione di (apparente) disincanto. Però è rimasta l’ironia. Graffiante, iperbolica, grandguignolesca.

Per anni ha lavorato all’Italsider, e di certo non amava quel mestiere. Però se n’è guardato bene dal rimuoverlo: Fantozzi, una delle più fortunate maschere del Novecento, è figlio di quella noiosa routine impiegatizia, che a lungo ha frequentato. Magari con malumore, ma nella consapevolezza che un posto fisso -allora come oggi- è più prudente tenerselo stretto. Ci voleva la sua adorata moglie Maura a infondergli il coraggio necessario per il grande salto. “Abbandona la scrivania” gli disse, “lascia sempre il certo per l’incerto”. A quel punto, col benestare della sua compagna, non restava che ingranare la quinta della comicità. Quelli della domenica, varietà degli anni Sessanta, fu il suo esordio.
Difficile: il pubblico non capiva questa sua aggressività. Il fedele abbonato RAI era ancora uno spettatore immaturo, e non capiva che le incazzature del conduttore Villaggio erano un gioco.

Ma la fortuna, spesso, è solo questione di un po’ di pazienza: nel ’71 il romanzo Fantozzi divenne un  best-seller. Finché nel ’75, piuttosto inaspettatamente, risultò addirittura il caso cinematografico dell’anno. Alt, fermi un momento! Villaggio sostiene -forse a ragione- che se non avesse sfondato come attore, ora verrebbe omaggiato come un grande scrittore. E in effetti, il ragazzo scrive parecchio bene. Se ne accorse perfino un mostro sacro come il poeta Evtusenko: in un importante convegno, lo fregiò nientemeno che del titolo di ‘Gogol italiano’ (stupore di Moravia, in sala tra i
presenti, che non capiva come un ‘guitto’ potesse ricevere parole tanto lusinghiere).

La verità, comunque, è che Villaggio ha accettato con molto piacere il successo cinematografico. Al di là dei vantaggi economici -che per un genovese non sono argomento di secondo piano- ciò che veramente lo ha reso felice è l’affetto di un pubblico vasto. Il successo lo ha vissuto come una stampella; una cuccia calda in cui rintanarsi per sfuggire alle sue insicurezze, alle inquietudini di un carattere sensibile. Senza contare poi il privilegio di potersi nascondere dietro la maschera del clown mentre la vita gli dava enormi dolori -la tossicodipendenza del figlio Pierfrancesco, che ebbe un lieto fine solo grazie all’intervento salvifico di Vincenzo Muccioli.

Non gli è mai sfuggito di essere un privilegiato sociale. E così, da miliardario, nell’ ’87 accettò la candidatura con Democrazia proletaria di Mario Capanna. Ricevendo pure una vagonata di voti, a dimostrazione della credibilità sedimentata negli anni. Comunista, probabilmente, non lo è mai stato. Poco credibile nei panni del ‘companero’. Piuttosto, un cane sciolto della Sinistra. Un battitore libero che nella vita ha incrociato più volte Berlusconi, rimanendone in qualche modo affascinato.

Da ragazzi intrattenevano il pubblico delle navi-crociera: Villaggio e De Andrè ‘allietavano’ le serate con strofe tipo Quando la morte mi chiamerà. Al che il presentatore della serata capiva l’andazzo, e annunciava subito l’arrivo di un cantante confidenziale: il giovane Silvio Berlusconi. Pulito e sorridente, spezzava i cuori di molte fanciulle col repertorio romantico francese.

Da allora, di acqua sotto i ponti (e sotto le navi-crociera) ne è passata parecchia. Villaggio, che in genere gioca sulla cifra del paradosso, quando parla della sua solitudine di uomo anziano esprime un dispiacere sincero. Nostalgia delle grandi tavolate di Ugo Tognazzi (con un Monicelli commensale ferocissimo, che definiva velenosi i cibi del padrone di casa); del vigore sessuale di una volta (ha avuto una vita sentimentale intensa, pur non smettendo mai di amare la madre dei suoi figli. Poligamo nel corpo, monogamo nel’anima); di una Genova che non c’è più, talmente pulita che si vedevano addirittura le lucciole nell’aria. Forse, addirittura, nostalgia delle serate passate nei cineclub polverosi e maleodoranti, in cui trasmettevano cento volte di fila La corazzata Potemkin. Che non è affatto una cagata pazzesca, e Villaggio lo sa benissimo.
Anche se non lo ammetterà mai.

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