Press "Enter" to skip to content

Shoah è facile dimenticare, ma difficile ricordare

 Il termine ebraico ”Shoah” ha un suono breve. Veloce. Immediato. Il suo significato, però, è così profondo. Forte. Doloroso. Perché ”Shoah” significa ”catastrofe” o ”desolazione”.

Quella stessa desolazione che si parò davanti ai soldati sovietici dell’Armata Rossa, all’ingresso del campo di concentramento tedesco di Auschwitz, nel giorno della ”liberazione”

 Era il 27 gennaio 1945, quando il mondo si fermò per un istante, o forse per sempre, davanti a quelle immagini tanto crude quanto reali: uomini e donne di religione ebraica o, per lo meno, l’eco delle loro sembianze di un tempo che, a stento, riuscirono a racimolare le forze per alzarsi da terra e lasciarsi salvare. Eppure, tutti quei visi scavati dalla fame, tutti quegli occhi spenti dalle atrocità viste e subite, dovevano avere un’identità e non soltanto un numero: erano ebrei di tutto il mondo. Artigiani, parrucchieri, cuochi, cantanti, attrici, muratori, scrittori, ingegneri, architetti, medici, poliziotti, studenti. In un tempo lontano, forse. Quando la guerra sembrava un gesto troppo impulsivo. E nessuno avrebbe mai creduto che un uomo austriaco, 1.53 cm d’altezza, avrebbe mai potuto dare forma a ciò che sembrava soltanto una follia poco lucida: la soluzione finale. Un piano architettato dai gerarchi nazisti, nei dettagli più piccoli e insignificanti, nel tentativo di oscurare la presenza ebraica dal pianeta. Il ”perché”, tralasciando le motivazioni economiche e antisemite, è lungi dall’essere chiaro. Ma i numeri urlano. Mostrano quell’orrore che molti avrebbero voluto celare: 6.000.000 di esseri umani tra uomini, donne, bambini e anziani, persero la vita dentro i lager della violenza.

Ciò che oggi ci rimane sono i documentari in bianco e nero, i musei stracolmi di oggetti, le fotografie sbiadite, i libri che raccontano i dettagli. Ma soprattutto, ci restano le storie e gli occhi di chi le racconta. Come la storia di Nedo Fiano, ebreo fiorentino, arrivato ad Auschwitz nel maggio del ’44 su un trasporto notte-nebbia. Una figura poetica per indicare i treni che trasportavano le stelle gialle nei campi di sterminio: ”cosa puoi immaginare di un tale convoglio? Niente. Un trasporto che non sai dove va” ha scritto Fiano. Quella notte, arrivò in Germania con il cuore pesante di chi è stato abbandonato dagli amici (non ebrei) e messo su un treno senza aver il tempo di salutare sua madre. Né il resto della famiglia. Capace di comprendere la lingua dei nazisti venne arruolato come interprete per conto di un generale tedesco. Questo fu il motivo per cui riuscì a salvarsi nei giorni della prigionia.

Ha raccontato anche che, una mattina, mentre stava assistendo alla selezione del dottor Josef Mengel, il quale con un cenno di mano destinava i prigionieri alla vita o alla morte, notò la presenza di sua nonna. Sfidando il destino, era corso ad abbracciarla, a stringerla, a rassicurarla. Perché lei, essendo sorda, non riusciva a dare un senso a cosa stesse succedendo a quelle persone che, schematicamente, venivano ordinate in fila. Fiano, colpito dall’emozione, svenne. Quando dopo pochi minuti si risvegliò, la nonna era stata già inviata in una delle tante camere a gas del campo. Non era rimasto più nessuno. Fiano, all’età di 18 anni, era orfano.

Oppure, la storia di Esther Kulzrow. Aveva undici anni quando i tedeschi fecero irruzione nella sua casa in Polonia. Urlavano parole sprezzanti, mentre i loro pastori tedeschi abbaiavano. Ordinarono a lei e alla sua famiglia di prendere soltanto tre cose di valore. La madre uscì di casa nascondendosi dei piccoli diamanti in bocca. Lei, invece, indossò il costume da bagno e un vestito che il padre le aveva portato da uno dei suoi tanti viaggi in Francia. Esther stringeva quello stesso vestito, insieme alla mano di sua sorella, e ripensava alle giornate felici al mare, quando i suoi genitori vennero selezionati per le camere a gas nel campo di Birkenau.

 

Ma ci sono tante altre storie, forse milioni, che potrebbero essere raccontate a chi non sa o non crede, aprendo un varco in quella parte di storia che vorremmo poter cancellare. Ma non è così facile cancellare. Andare avanti. Così come, oggi, sembra sempre più difficile imparare a non inciampare negli stessi sbagli di quegli antenati che, volenti o nolenti, ci ritroviamo dietro le spalle.

 

La shoah è il giorno della memoria. Il giorno in cui tutto, dal passato della guerra, ritorna e ci casca addosso con violenza. Ci ricorda un passato di esseri umani privati della propria identità e dignità in nome di quella ”superiorità della razza” che nessuno ha il diritto di accorpare alla propria etnia. E ci ricorda anche, e soprattutto, chi dovremmo essere e chi, evidentemente, ancora non siamo. Cittadini del mondo. Un mondo popolato, fortunatamente, da persone diverse.

Comments are closed.

Mission News Theme by Compete Themes.