Quando iniziano a parlare, però, stare a sentire diventa un’esigenza. Storie come quella di Luigi Marangoni, (ex) direttore sanitario del Policlinico di Milano, ucciso dalle Brigate Rosse il 17 maggio 1972. Un nome proprio che risuona all’interno di una lunga lista che risponde al titolo di “Vittime del terrorismo italiano”.
Medico, marito e padre. una vita piena quella di Luigi Marangoni, spezzata nel tempo di un sol da un “perché” a cui non si vorrebbe dare risposta. Aveva scoperto che alcuni infermieri, all’interno della struttura ospedaliere di cui era direttore, staccavano la spina ai frigoriferi che conservavano il sangue destinato alle trasfusioni che, ormai guasto, veniva buttato. Medico professionista sì, ma anche e soprattutto un grande esempio di coraggio che non ebbe paura di denunciare da subito i responsabili, accusandoli di “danneggiamenti gravi”. Divenuto la preda di un’ondata di intimidazioni, insulti e minacce di morte, quel 17 maggio Marangoni venne ucciso sotto casa sua mentre era intento a mettere in moto la sua auto per andare a fare, come sempre, il suo mestiere. Armati di mitra furono tre, dei quattro soggetti ad attenderlo, a sparare su di lui, lasciandolo solo e privo di vita nella sua auto. Attraverso una telefonata fatta ad un giornale le Brigate Rosse rivendicarono l’assassinio: colonna Walter Alasia. E in seguito si scoprì che fu proprio una caposala del Politecnico a fare il nome di Marangoni ai brigatisti.
Vanna Bertelè, moglie e poi vedova di Marangoni, ha raccontato tante volte la tristezza di quella giornata, mostrando lo stesso dolore di allora quando si rivolge a Mario Calabresi, oggi direttore della stampa, ieri orfano di Luigi Calabresi, altra vittima della furia del terrorismo italiano: .
Marangoni sapeva che la sua denuncia lo aveva condannato a una morte da cui non si scappa. Lo sapeva perché altri infermieri dello stesso ospedale erano stati gambizzati in seguito ad aver solo accennato alla possibilità di spifferare il danno. Lo sapeva quando aveva annunciato con amarezza a Francesca, la figlia diciasettenne, che non l’avrebbe più accompagnata a scuola per evitare di compiere sempre lo stesso percorso. Lo sapeva quando aveva chiesto perdono alla moglie Vanna perché l’avrebbe lasciata sola insieme ai loro due figli, che non avrebbe mai visto crescere.
Francesca Marangoni, oggi è medico e lavora al centro per il coordinamento dei trapianti che porta il nome di suo padre. Il nome di un eroe, esempio di professionalità e coraggio, in un Italia a cui, a volte, il coraggio di raccontare ad alta voce è mancato.
Sara Scasseddu
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