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Libia: liberata o comprata?

 In un mondo in bianco e nero l’intervento militare della NATO a sostegno dei ribelli potrebbe sembrare un classico esempio di “buoni che vincono contro i cattivi”: una vittoria cristallina,

sancita dalla gloriosa liberazione dal regime dittatoriale di Gheddafi, onorata dalle immagini di un popolo in festa che celebra l’inizio di una nuova era. Ma viviamo in un mondo a colori, e guardando più da vicino le sfumature del provvidenziale aiuto internazionale si intravede il verde scuro e oleoso del petrolio, l’oro scintillante che viaggia lungo i gasdotti libici verso le casse delle potenze occidentali, il vendicativo rosso sangue che continua a macchiare le strade rastrellate dai ribelli alla ricerca di veri e o presunti lealisti.

 Per capire il dietro le quinte della rivolta libica bisogna però fare un passo indietro e analizzare il contesto in cui si è sviluppata. La guerra civile inizia con le proteste a Bengasi nel Febbraio 2011 contro l’arresto di un un attivista e aggiunge un importante tassello alla cosiddetta “primavera araba”, ondata rivoluzionaria inaugurata dagli scontri in Tunisia alla fine del dicembre 2010 e diffusasi rapidamente in altri 17 paesi in Nord Africa e Medio Oriente. I primi mesi del 2011 segnano un momento storico per il mondo arabo: resistenza civile e manifestazioni pacifiche portano alla rapida capitolazione dei regimi autoritari di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, promuovendo l’idea che una nuova società basata sui pilastri della democrazia e del rispetto dei diritti umani sia finalmente possibile.

 

Gheddafi, tuttavia, non vuole abbandonare la partita fuggendo con la coda fra le gambe e, forte dell’appoggio delle forze lealiste e del sostegno di cui gode nella Libia occidentale, decide di usare il pugno di ferro: la risposta alle proteste nelle strade di Bengasi e nelle altre città in cui si diffonde la rivolta è il massacro. La repressione scatena e radicalizza le proteste invece di arginarle, facendo precipitare il paese nella spirale di violenza di una guerra civile che si prolungherà per altri sette mesi. E alle richieste iniziali di democrazia e libertà si intrecciano presto anche i sentimenti di rivincita della famiglie escluse dai giochi della casta al potere e le frammentate rivendicazioni degli oltre 140 clan che compongono il mosaico libico, trasformando le manifestazioni anti-governative in una guerra tribale.

 

Al coro di dissenso contro la ferocia del regime di Gheddafi si unisce inoltre anche la voce del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che il 17 Marzo vota una risoluzione con la quale si istituisce una no-fly zone e si autorizza la Nato a intervenire militarmente per “proteggere i civili” e sostenere i ribelli. Il Consiglio Nazionale Libico, che già dal mese di Marzo si autoproclama “unico rappresentante della Repubblica Libica” e ottiene il riconoscimento internazionale, riceve così un consistente aiuto che segnerà le sorti del conflitto. Ad Agosto le truppe ribelli conquistano Tripoli e il 21 Ottobre, con l’uccisione del colonnello Mu’ammar Gheddafi, la Libia viene ufficialmente dichiarata “libera”.

 

Il successo della missione e l’ammaliante profumo della libertà nascondono però un paradosso: può la parola “guerra” essere associata a quella di “ragione umanitaria”? L’interrogativo resta aperto e la risposta è soggettiva, ma sono numerose le questioni che proiettano un cono d’ombra sul valore morale e strategico dell’intervento militare e sul futuro libico.

 

Come tutte le guerre, la guerra in Libia è una guerra sporca: le stime sulle vittime del conflitto sono ancora vaghe ma secondo le ultime dichiarazioni del Consiglio Nazionale i morti su entrambi i fronti sarebbero circa 25.000 in totale. Anche se le forze Nato hanno ripetutamente sottolineato come ogni loro bombardamento fosse mirato a obbiettivi militari, è difficile sperare che gli attacchi in zone residenziali densamente abitate siano riusciti nell’intento di colpire solo combattenti lealisti. Secondo le ricerche di Human Rights Investigations le forze statunitense sarebbero inoltre colpevoli di aver usato “cluster bombs”, le famigerate bombe a grappolo che rilasciano mine che possono restare inesplose per anni e che nel 2008 furono bandite da una Convenzione Onu, ratificata dalla maggior parte dei paesi della Nato ma non dagli USA.

 

Nel rapporto “The battle for Libya: killings, disappearances and torture” Amnesty International inoltre denuncia la gravità dei crimini compiuti dai ribelli: imprigionamenti arbitrari e senza ordine d’arresto, torture nelle carceri per estorcere confessioni, pattugliamenti nei presunti covi dei lealisti e rapimenti indiscriminati, furia vendicativa contro gli africani delle tribù sub-sahariane, spesso erroneamente accusati di essere mercenari al soldo di Gheddafi solo per il colore della pelle.

 

Il 21 Ottobre a Sirte viene trovata una fossa comune con i corpi di 53 lealisti, con le mani legate dietro la schiena: caso isolato o testimonianza di una tendenza più vasta? La pulizia etnica nella città di Tawergha, completamente svuotata dai suoi 31.000 abitanti, fa propendere più per la seconda opzione. Molti dei suoi cittadini son stati uccisi, altri son stati rapiti e imprigionati, altri ancora son riusciti a scappar via. E i migranti sono le altre vittime dimenticate del conflitto: quante vite imprigionate tra le mura dei “centri di identificazione ed espulsione” in Italia, quante richieste d’aiuto respinte, quanti nomi annegati nelle acque del Mediterraneo?

 

Ma anche ammettendo che le morti dei civili e la tragedia relativa ai migranti siano un effetto collaterale non imputabile alla missione Nato, c’è un altro elemento che indebolisce l’argomento umanitario con cui l’intervento è stato giustificato: se in Libia l’ingresso delle potenze internazionali è stato presentato come inevitabile, perché in Siria il governo Assad ha potuto massacrare oltre 3.500 pacifici manifestanti ricevendo come ammonizione solo qualche cauta parola di condanna? E perché l’Italia ha potuto rinviare sino al 15 Novembre l’approvazione dell’embargo dell’Unione Europea diretto a bloccare le importazioni di petrolio dalla Siria, continuando a commerciare con un regime che in quanto a ferocia non ha nulla da invidiare a quello di Gheddafi?

 

L’intervento militare in Libia non fa che rendere ancora più evidente l’ipocrisia delle potenze Nato. Non è un caso che alla conclusione della guerra le compagnie francesi, britanniche e italiane si siano affrettate a lanciarsi in trattative con i nuovo governo per assicurarsi agevolazioni e privilegi nell’acquisto del petrolio libico e nel settore delle ricostruzioni post-belliche. Il ministro francese, di fronte alle accuse di passaggi poco chiari nelle trattative, ha onestamente ammesso in un’intervista rilasciata a radio RTL: “Il Consiglio Nazionale ha detto ufficialmente che riguardo alla ricostruzione della Libia si rivolgerà prevalentemente a coloro che lo hanno aiutato. Questo mi sembra giusto e logico.”

 

É logico intraprendere una guerra quando c’è la possibilità di un facile guadagno, ed è altrettanto logico fare appello a presunte strategie diplomatiche e non-interventiste quando invece il dittatore è un prezioso alleato economico o una pedina importante negli equilibri mondiali. Gheddafi, che in passato è stato un partner cruciale per le imprese energetiche europee e per le delicate politiche del mondo arabo, per ben 42 anni è potuto restare al capo di un regime oppressivo macchiato da abusi, corruzione e torture e per ben 42 anni ha fatto affari con tutte le potenze europee, Italia in primis.

 

Ma era un partner inaffidabile e molti governi son stati ben felici di aiutare i ribelli a metterlo fuori gioco. Tutti gli altri dittatori nel resto del mondo possono però continuare a dormire sonni tranquilli: è il profumo dei soldi che risveglia gli istinti di difesa dei diritti democratici, ma la puzza dell’oppressione riesce in genere a non sfiorare le narici di politici e uomini d’affari e a passare facilmente inosservata.

Lorena Cotza

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