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Firenze/Lo scrigno de ‘La Specola’

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Cinquemila esemplari animali esposti al pubblico, tra imbalsamazioni e repliche perfette; per i cultori dell’anatomia cere di epoca settecentesca, fedelissime riproduzioni del corpo umano, fattura eccezionale di mastri artigiani del XVIII secolo.

 

 Signore e signori ecco a voi La Specola, sezione di zoologia e anatomia del Museo di Scienze Naturali di Firenze, un gioiello della cultura e della scienza incastonato nella parte ‘vecchia’ della città, in via Romana, a due passi da Palazzo Pitti.

Oggi di proprietà dell’Università di Firenze, le origini de La Specola risalgono al 1775 quando il Gran Duca Pietro Leopoldo di Lorena istituisce l’ Imperial Regio Museo di Fisica e Storia Naturale che, nel corso dei decenni, arriverà ad inglobare diverse collezioni di botanica, paleontologia, zoologia, anatomia.

La mia visita all’esposizione non è programmata, entro nel museo quasi per caso, vergognandomi di non averci mai messo piede in quattro anni di università.

Rimango immediatamente colpito dalla bellezza dei locali immersi in un silenzio surreale. Passanti, turisti, strada: i rumori del quotidiano sembrano scomparsi.

Sono poche le sedi universitarie rimaste nel centro storico fiorentino e, quella di via Romana, mi ricorda la mia facoltà in Piazza Brunelleschi, a due passi dal Duomo, o anche la facoltà di Magistero, dietro alla Santissima Trinità.

Maestose vestigia del passato, le facoltà del centro storico preservano quiete e austerità ormai scomparse dai grandi poli decentrati, spinti in periferia tra edifici in cemento armato, palazzoni asettici che bene danno l’idea dell’università come esamificio.

Due piani e due mostre: minerali e gemme al I, animali e corpo umano al II.

Nemmeno internet, con i documentari del National Geographic reperibili ormai da chiunque, è riuscita a regalare l’emozione che dà la vista di migliaia di esemplari impagliati: mammiferi (addirittura dugonghi e focene), rettili, uccelli (una miriade, dalle rondini agli albatros e tucani), invertebrati e pesci cartilaginei, quali ad esempio lo squalo volpe (alopias vulpinus) o il tigre (galeocerdo cuvier) adagiati in una teca, quest’ultima decorata dalla maestosa e terrificante mandibola del grande squalo bianco. Le fauci della bestia hanno cento anni, risalgono infatti al 1895, quando un esemplare di sei metri fu catturato a Monte Rosso, Liguria. Lo squalo bianco da tempo immemore nuota anche nel Mediterraneo, in particolare gli avvistamenti più numerosi sono avvenuti negli anni nel Tirreno e nell’Adriatico.

Non lontano dall’inquietante muso schiacciato dello squalo tigre una grande raccolta di cere, cere anatomiche che raffigurano orpi interi o parti di essi. Capolavori realizzati nel XVIII secolo quando, in piena Epoca dei Lumi, la ricerca scientifica e medica ricevette un forte impulso. Manufatti di incredibile bellezza e perfezione, dovizia di particolari da far impallidire tecnici del 3D. Nervi, muscoli, organi sembrano fotografati in un sala operatoria tanto grande è stata la capacità di copiare la natura. Ne sono emblematici esempi lo ‘spellato’ e la sezione cranica che vi proponiamo.

In una piccola stanza, posta poco prima dell’uscita, la peste (morbo gallico) come appariva agli uomini del Seicento. Opere del ceroplasta Gaetano Giulio Zumbo propongono gli effetti della piaga sui corpi e le fasi della loro decomposizione. Queste sono le cere più antiche e risalgono agli anni novanta del XVI secolo.

 

Marco Petrelli

 

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