Era il 16 ottobre 2001 quando il corpo deturpato e senza vita di Antonio Russo venne scoperto in una stradina di campagna nei pressi di Tbisili, capitale della Georgia. Un undicesimo anniversario di morte che suona come un promemoria a ricordare all’Italia,
Antonio Russo, giornalista per vocazione, era molto più di un semplice reporter free-lance. Il rispetto per una verità disinteressata e libera da pesi politici lo aveva portato a non iscriversi all’Ordine dei giornalisti e a rifiutare le numerose proposte ricevute da alcune delle più prestigiose testate italiane, per dare voce alle più crude realtà della guerra ai danni delle popolazioni civili, senza l’ingerenza di deformazioni politico-ideologiche.
Divenne reporter internazionale per Radio Radicale, dopo essersi presentato dall’allora direttore dell’emittente radiofonica, Massimo Bardin, proponendogli alcuni suoi reportage catturati in giro per il mondo. Proprio per questa emittente condusse numerose corrispondenze, tra cui le più note restano quelle durante le elezioni algerine nel periodo di massima ostilità tra il governo algerino e il Fis (Fronte di salvezza islamica) e quelle dal Rwanda, dall’Ucraina, dal Burundi, da Sarajevo.
Inviato in Kosovo, in seguito all’espulsione di tutti i giornalisti dal paese voluta dal governo di Belgrado, fu l’unico cronista che, nascostosi nelle cantine di Pristina, riuscì a documentare la cosiddetta ‘pulizia etnica’ e la successiva fuga della popolazione a maggioranza albanese. Reporter sui generis, si mimetizzò in un convoglio insieme ai rifugiati kosovari, e dopo essere approdato in Macedonia, a piedi raggiunse Skopje, la capitale.
Ma è soprattutto quando si tira in ballo la guerra cecena che l’eco di Antonio Russo risuona prepotentemente tra le pareti della politica e del giornalismo internazionali. Nel 1999 fu inviato in Cecenia, ancora una volta da Radio Radicale, per mostrare al mondo l’orrore della seconda guerra cecena, missione per cui sacrificò la propria vita in nome di quella verità di informazione che lo aveva sempre contraddistinto, rendendolo fonte di autentcità e lealtà giornalistica a livello internazionale. Sulla sua misteriosa morte, avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2000, nessuno è riuscito ancora a fare chiarezza. Ciò che è certo è che le registrazioni e gli appunti che aveva con sé non furono ritrovati e che, proprio due giorni prima della sua morte, aveva riferito alla madre di essere in possesso di una videocassetta che avrebbe mostrato al mondo le efferate torture commesse dalle squadre speciali russe contro un’ inerme popolazione cecena.
Antonio Russo è morto all’età di quarant’ anni, e c’è chi, della sua morte, accusa ancora il governo Putin. Secondo molte voci, infatti, il reporter sarebbe stato ucciso poiché si accingeva a denunciare l’uso improprio di armi non convenzionali da parte dei militari russi contro la popolazione civile cecena. Voleva liberare il mondo dalla sua cecità e svelare l’orrore di quelle immagini, che dovevano essere così crude da averlo scioccato: violenze sessuali su donne e bambini, esecuzioni sommarie, roghi di massa. Violenze e torture che causarono il decesso di 2879 vittime civili. Per alcuni sopravvissuti all’orrore, Antonio Russo rappresenta colui che si era preso a cuore le sciagure di una popolazione disgraziata, sfidando la crudeltà dei Russi, i quali, poi, avrebbero punito il suo coraggio.
Quello di Antonio è, e resterà sempre, un esempio di coraggio intellettuale di chi si è battuto per la verità di stampa. Non per la fama, non per uno stipendio più cospicuo, ma per quella che secondo lui costituiva la primaria esigenza morale di governi e corrispondenti: il dovere di andare a documentare le situazioni dove i diritti umani, soprattutto il diritto alla vita, venivano violentati con maggiore gravità e ferocia, mentre i governi di tutto il mondo si abbandonavano ad un ingiustificato silenzio e a una comoda tolleranza.
Sara Scasseddu
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