E’ uno spettacolo intenso, urlato, acclamato dalle mani di un pubblico commosso, quello che, ieri, Ottavia Piccolo ha portato in scena presso il Teatro Massimo – Minimax di Cagliari.Sul palco diviso tra l’ombra e un’unica luce dorata, le malinconiche corde dell’arpa di Floraleda Sacchi
sembrano soffrire e angosciarsi insieme ai racconti che Ottavia Piccolo regala al suo pubblico, nutrendosi degli articoli di giornale e dei diari che racchiudono i pensieri più intimi della giornalista russa. L’intensità della sua voce ci scaraventa da subito nella perdizione della Russia postsovietica, torturata dalla feroce lotta tra i militari russi e quelli che vennero definiti ”terroristi ceceni”. Offrendoci dei racconti brevi che assumono la parvenza di intense istantanee fotografiche, che sembrano quasi troppo crude per essere reali, l’attrice racconta un’ Anna Politkovskaja coraggiosa nel suo denunciare gli abusi dei militari russi ai danni della popolazione civile cecena; un’Anna Politkovskaja forte nelle notti in cui il rumore assordante delle bombe la stordiva facendola abituare anche all’idea della sorte più dura di tutte, quale la morte; e ancora, un’ Anna Politkovskaja che si riempie di immotivati sensi di colpa pregni di umanità, quando due delle persone a cui si era rivolta per l’indagine sui delitti commessi dalle forze russe vennero freddate da dei colpi di pistola, colpevoli di aver raccontato una verità che doveva essere taciuta.
L’attrice, vincitrice del premio ‘Olimpici del Teatro’, fa rivivere i pensieri e le emozioni di quella giornalista cui venne attribuita l’etichetta di ”donna non rieducabile” dal Cremlino di Mosca. Si, perché era difficile fermare la penna e la convinzione della Politkovskaja, perfino dopo l’aggressione subita all’interno di una base militare russa in cui le era stata puntata una pistola alla tempia e aveva ricevuto dei violenti calci al petto e al naso, che le era stato spaccato. Aveva descritto la sensazione di quel momento in cui tutto sembrava essersi fermato, perfino il tempo: ”Mi guardo da fuori, e non mi appartengo”. Ma nonostante quell’episodio che avrebbe dovuta distoglierla dalla sua missione, statica nella sua convinzione, pensava che, dopotutto, la Russia sarebbe potuta diventare uno stato democratico, nonostante le mosse del governo Putin sembrassero più indirizzate a riportare in auge un governo simile a quello estinto di Brežnev .
Tra le tante destinazioni gli occhi di Ottavia Piccolo si fermano dapprima a Grozny in Cecenia. Case grigie, fumo e una testa umana appesa al gasdotto, questo è ciò che vede la giornalista russa. E’ la testa di un ribelle ceceno che successivamente verrà ricucita al corpo col fildiferro, come a voler dare un avvertimento, più che un esempio, agli altri. L’attrice, simula anche la faticata intervista della Politkovskaja ad un militare russo, appena ventenne, che le rivelò la strategia della ”falange umana”: ribelli ceceni ammassati in un mucchio, legati e poi fatti esplodere con una mina. Alla sua domanda sconcertata sul come dei soldati, soprattutto così giovani, potessero fare questo ad altri esseri umani, la giornalista si sentì rispondere ”non sono uomini ma ceceni”. E ancora, Ottavia Piccolo con un climax di emozioni, corse e fumo grigio, racconta l’attentato dei kamikaze nei pressi del parlamento ceceno, gli stupri su donne e bambine, le fosse russe adattate a carceri in cui depositare al sole i prigionieri perché, dopotutto, “siamo corpi senza nulla dentro” come rivelò alla Politkovskaja un uomo ceceno che, come tanti altri, non ritroverà mai il figlio, misteriosamente scomparso.
Gli occhi di Ottavia Piccolo, poi, arrivano a posarsi sulle stragi del teatro di Dubrovka, in cui 40 militanti ceceni, armati, presero in ostaggio 850 civili domandando il ritiro immediato delle forze russe dal territorio ceceno, e della scuola di Beslan in cui, nel settembre 2004, i separatisti ceceni sequestrarono 1200 persone, causando la morte di 186 bambini. Ad Anna Politkovskaja venne chiesto di prendere una posizione, ma davanti a tale domanda, Ottavia Piccolo inizia a depositare sul palcoscenico, con cura, dei fascicoli bianchi che indicano i nomi dei giovani studenti uccisi, tutti bambini dagli otto ai quattordici anni; sorelle, fratelli, amici che dormono nei tanti corridoi del cimitero di Beslan. Ottavia Piccolo, nei panni di Anna Politkovskaja, guarda con aria sofferente quei nomi e si chiede che posizione debba prendere, davanti all’uguale colpevolezza di ribelli ceceni e militari russi.
L’intenso monologo di Ottavia Piccolo si chiude nel racconto della perdita di un’altra voce del giornalismo, condannata a morte dalla sua passione per la verità giornalistica e da chi, quella verità, la voleva nascondere nel buio. Stava per pubblicare su Novaja Gazeta, il giornale su cui scriveva da anni, un articolo di denuncia sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene che sembravano essere legate a Ramsan Kadyrov, il primo ministro. Ma quattro colpi di pistola posero fine a quegli occhi che erano stanchi di vedere abusi ingiustificati e a quella penna mai sazia di coraggiose denunce. La Politkovskaja morì sola nella sua missione, e nessun membro del governo russo partecipò al suo funerale perché, probabilmente, Anna aveva ragione: quello che doveva essere un tesserino da giornalista era, in realtà, un tesserino politico.
Ottavia Piccolo si ferma, e in segno di gratitudine rivolge numerosi inchini al suo pubblico che sembra ritornare, insieme a lei, da quel viaggio difficile e commosso, e inizia ad offrire i suoi applausi al talento dell’attrice di Bolzano. Quello stesso pubblico che per tutta la rappresentazione ha seguito i sospiri dell’arpa e delle emozioni della Politkovskaja, senza mai interromperli con il chiasso degli applausi, come a non voler distruggere l’incanto di quelle instantanee che la Piccolo gli ha regalato.
Sara Scasseddu
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